sabato 29 agosto 2009

Vincenzo Gemito

‘O scultore pazzo
di Franco Santamaria

Gemito, uno dei tanti figli della Madonna abbandonati nella ruota della Nunziata, aveva un pensiero fisso: non si può fare nessuna opera se non si conosce il passato.

E, stranamente, i suoi bronzi di nudi di bambini con le bocche carnose e i sorrisi “sfroguliatori” uniscono l’arte perfetta dei greci a quella realistica dei figli della fame di una Napoli imbrigliata fra passato e futuro. 

Gemito insieme al suo amico pittore Mancini non si accontenta della realtà già di per se povera dei visi e della carne; vuole andare oltre, cerca i “malatielli”, cerca il piccolo “idiota” e li rappresenta con la più povera delle materie: la creta, la terracotta, perché povero e malato è il massimo di una ricchezza dell’espressione.

La mente vacilla e gli psicologi cercano di capirlo ma lui si spiega:- L’arte di per sé è una pazzia… comme faccio a essere ‘e ‘n’ata manera!?

A trentacinque anni cessa di lavorare e riprende dopo venti anni.

A settanta anni si fa fotografare continuamente nudo con la sua folta barba bianca: I vestiti… pecchè ci stanno ‘e vestiti?! A settantasei anni muore chiudendo gli occhi e mormorando:- Voglio dormire.

Li ho visti i bronzi e le terrecotte. Li guardo da anni a Sanmartino, villa Pignatelli, il più bello, ‘o piscatoriello, a Firenze l’ho divorato con gli occhi per ore… un custode mi guardava con sospetto..

Quando guardo quelli di Napoli mi sposto poi a via Caracciolo, al lido Mappatella o sotto castel dell’Ovo: sugli scogli schiaffeggiati dal mare ci sono i bambini del Pallonetto magri e neri di sole. 
L’altro giorno uno di questi era accovacciato su se stesso, il capo reclinato in avanti fino a toccare la pancia tonda, cercava granchi con una canna e un arpione di ferro. Le piccole scapole sporgevano come ali. Il sole lo colpiva e braccine e gambe brillavano. Era di carne o di bronzo? La leggenda c’è. Si dice che i bronzi quando vedono i turisti abbandonare il museo per andare a pranzo alla Zi Teresa, si animano, percorrono la villa comunale e via Caracciolo di corsa chiamandosi “Ciro” , “Tatò”, “ curre curre”, "t’aggio fatto” e ridono, ridono come tutti i bambini che vivono solo il presente… e, a nuoto, come piccoli delfini, attraversano il tratto di mare fino al porticciolo di Santa Lucia e lì i turisti li rivedono animati, un po’ sorridenti per lo scherzo che stanno combinando loro. E si guardano in faccia con strani sorrisi perché non capiscono ma sono incantati.
Gemito. 

Il suo vero nome era Genito, da “generato” come Esposito, perché non è una vergogna, perché a Napoli si “espone” ciò che è bello e uno è bello già solo perché è nato, c’è e se non c’è più è bello lo stesso forse più di prima.

E poi la sua “crocchia”: Di Giacomo, Dannunzio, Mancini, de Nittis, Morelli ma anche Mussolini. Ma soprattutto l’altro scultore Ierace che porta la modella nel suo studio e la fa sdraiare su un divano di fronte a una finestra dai vetri colorati perché il sole colpendola continuamente sul viso la faccia addormentare nel più dolce dei modi e mentre lavora la creta con le mani fa suonare la canzone “Era de maggio” che Di Giacomo aveva appena composta. E l’opera si chiama proprio così: “ era de Maggio” e la testina di terracotta ha gli occhi chiusi e lei dorme di sonno e di canzone.

Il pensiero è elementare ma una cornucopia può riversare monete, perle oro e gioielli che brillano sotto al sole… ma se i passanti sono ciechi?...Non fa niente, l’importante è che la cornucopia sia lì ricca e brillante per chi decide di guardarla un po’ di più.

E’ strano ma si può volere bene a persone che non si sono mai conosciute e viene voglia di abbracciarle forte di tenerle strette, ma molto strette sul petto...

Franco Santamaria

venerdì 28 agosto 2009

Era de Maggio

Era de maggio e te cadeano ‘nzino
a schiocche a schiocche li ccerase rosse...
Fresca era ll’aria e tutto lu ciardino
addurava de rose a ciente passe.

Era de maggio — io, no, nun me scordo —
na canzona cantàvamo a ddoje voce:
cchiù tiempo passa e cchiù me n’allicordo,
fresca era ll’aria e la canzona doce.


E diceva. «Core, core!
core mio, luntano vaje;
tu me lasse e io conto ll’ore,
chi sa quanno turnarraje!»

Rispunnev’io: «Turnarraggio
quanno tornano li rrose,
si stu sciore torna a maggio
pure a maggio io stonco cca».

E so’ turnato, e mo, comm’a na vota,
cantammo nzieme lu mutivo antico;
passa lu tiempo e lu munno s’avota,
ma ammore vero, no, nun vota vico.

De te, bellezza mia, m’annamuraje,
si t’allicuorde, nnanze a la funtana:
l’acqua Ilà dinto nun se secca maje.
e ferita d’ammore nun se sana.

Nun se sana; ca sanata
si se fosse, gioia mia,
mmiezo a st’aria mbarzamata
a guardare io nun starria!


E te dico — Core, core!
core mio, turnato io so’:
torna maggio e torna ammore,
fa de me chello che buo’!

Salvatore di Giacomo e P. M. Costa
1885

lunedì 24 agosto 2009

giovedì 20 agosto 2009

Napoli è...




Napoli è il profilo di una collina che discende dolce al mare e la sua costa si allarga a semicerchio nell’ampio golfo che la contiene.

Il mare qui non è mai troppo cattivo, anche in inverno riflette i raggi del sole sui visi della gente e una brezza leggera ne rinfresca le sere quando è estate.

Sullo sfondo il Vesuvio, simbolo e vessillo della città, elegante, silente ma non muto, infiamma i cuori e gli animi, e resta a ricordare quanto tutto sia fugace e impermanente.

Napoli è città d'arte. Musei, chiese, palazzi, piazze, fontane e statue che incroci ad ogni angolo,
 e raccontano la storia della città. La sua bellezza e il patrimonio artistico ha attratto gente da ogni dove. Richiamati dal disegno naturale della costa, dal clima mite e dalla posizione strategica, è sempre stata terreno di scontro tra le popolazioni che vi si volevano insediare.

E come una bella donna è stata desiderata e presa, violata e umiliata, ma anche corteggiata e ingioiellata, adorata ed eletta regina.

Per lunghi secoli Napoli è stata la capitale di un regno, e più popoli si sono alternati, lottando per dominarla.
Greci e romani, bizantini e normanni, e poi ancora gli Svevi dalla Germania e gli Angioini dalla Francia, e gli Aragonesi e i Borboni dalla Spagna. Re e viceré, duchi, regine e imperatori, in un alternarsi di eventi, poteri e dominazioni, si insediavano e ne modificavano l'essenza, chi depredandola, chi lasciandone il segno con nuove strade, chiese, cattedrali e castelli.
Vi dimoravano fin tanto che riuscivano a ricacciare con la forza altri invasori ancora, di altro aspetto, altra lingua, altra cultura.

E il popolo napoletano, mite e gioviale, pago dal benessere del clima e dalla bellezza del luogo, non ha mai sviluppato la grinta e la stoffa del guerriero. Non avendo alcun motivo di ricercare e conquistare altrove territori migliori, non ha imparato a guerreggiare e nemmeno a difendersi. Ha quindi subito, con sospetto e diffidenza, una moltitudine di insediamenti di genti e culture più potenti, costretto a farsi carico del peso dei capricci e delle guerre dell’invasore.

Un popolo che ha dovuto imparare a sottostare a un potere più forte. Un potere estraneo e straniero mai accettato, anche se dal confronto e l'integrazione con culture diverse, ha arricchito il proprio patrimonio artistico e culturale.

E oggi Napoli si presenta così. Un paradiso assediato in terra. Abitata da un popolo che ne riflette l’evoluzione, un insieme di culture diverse che nel bene e nel male si scontrano e si integrano l’una nell'altra. Un insieme variopinto e multicolore che rendono Napoli unica nel mondo.

Tina Paliotti